«Così, trascorsa la fase già forse declinante in cui la scuola più ricca è quella che può permettersi un tablet per ogni bambino (e all’altezza dell’adolescenza deve già organizzare interventi di disintossicazione digitale, incrementando lavoro e utili non solo dell’indotto tecnologico, ma anche dei relativi antidoti), non è difficile immaginarne una in cui le scuole migliori possano dirsi così evolute e innovative da poter fare a meno, in classe, dei ritrovati tecnologici, di cui pure abbondano, come utili mezzi, negli impianti antincendio e nelle cucine.
Quanto alla ricerca, nelle scienze umane come in quelle matematiche, fisiche e naturali potrebbe, di fatto, già essere considerato all’avanguardia chi, anziché continuare a rincorrere la tecnica, cercasse una stimolante innovazione nella bonifica da ciò che, proponendosi di fecondarla, l’ha spesso inaridita. Si tratta, in fin dei conti, di ricondurre il patologico al fisiologico, disinfestando settori nei quali un approccio riduttivamente tecnico è divenuto il sostituto dell’esercizio del pensiero, dell’impiego del migliore hardware di cui disponiamo, cioè il nostro cervello, e di quello dei nostri software più raffinati, cioè le nostre lingue naturali.
Per questa via, laboratori, gallerie, biblioteche, archivi, collezioni, edizioni, atlanti e repertori potrebbero tornare a chiamarsi con i loro semplici nomi, senza bisogno di aggiungere aggettivi come “digitale” o “multimediale” che oggi paiono alludere alla loro unica ragione di esistere. Non perché essi non debbano essere, all’occorrenza, supportati dalla tecnologia: ma perché appunto quest’ultima dovrebbe essere solo funzionale, accessoria al loro valore di prodotti di una cultura dotata di autonoma dignità e di valore imperituro.
Se gli scrittori di fantascienza si dilettavano nel secolo scorso – e si dilettano ancora, se pure in forme un po’ diverse – a immaginare la prise de pouvoir delle macchine e della rete divenute entità autocoscienti, tale ipotesi appare oggi tanto avventurosa quanto, a ben vedere, ottimistica. Per il momento, un rischio ben più concreto rispetto all’improbabile governo delle macchine sembra riguardare l’ascesa al potere di persone in carne ed ossa forse meno adatte di tante macchine a ragionare con la complessità e la lungimiranza che certe materie richiederebbero. Cioè i progettisti di macchine.»
Lorenzo Tomasin, L’impronta digitale, 2017 >>